La storia della birra

Due sono le qualità che hanno da sempre contraddistinto la storia della birra nei secoli: la sua presenza pressoché universale e la sua popolarità in ogni ceto sociale. Nel primo caso si può infatti affermare che laddove ci sia stata la coltivazione dei cereali, si è verificata anche la produzione della birra.
La seconda asserzione invece è avallata da innumerevoli testimonianze storiche. Non si sa con esattezza dove sia nata la prima birra: c’è chi parla di Mesopotamia, chi di Egitto, chi di isole Orcadi, chi addirittura di Malta. Ma molti credono che ciò non sia importante, poiché è assai verosimile che il fenomeno della fermentazione sia stato scoperto casualmente in diverse parti del mondo più o meno nello stesso periodo.

LE ORIGINI

Agli albori della sua comparsa sulla terra, l’uomo viveva nei boschi, che ricchissimi ricoprivano il globo, e si nutriva essenzialmente di bacche, radici, frutti e, per quanto gli era possibile, di caccia. Questa vita difficile, dura, tesa alla continua ricerca di cibo, fra l’altro non sufficientemente disponibile per tutto l’arco dell’anno, faceva si che la crescita della popolazione fosse estremamente limitata sia perché la scarsità di cibo influiva sulla fertilità, sia perché per la sopravvivenza, i gruppi familiari o piccole tribù, avevano bisogno di larghi spazi ove cacciare ed effettuare la ricerca dei vegetali commestibili.
Soltanto dopo aver scoperto l’agricoltura – ma per compiere questo piccolo passo occorsero migliaia di anni – l’uomo poté disporre di più abbondanti quantitativi di cibo per tutto il periodo dell’anno, raggiungendo così più sicurezza e serenità.
Quindi uscì dalla foresta e conquistò i larghi spazi delle praterie ove meglio poté applicare le pur rudimentali tecniche agricole. Le famiglie crebbero, si formarono tribù, villaggi, paesi, sempre più grandi centri abitativi, sino a raggiungere le dimensioni di vere e proprie città. Sulla terra cominciava il processo di crescita della popolazione che, nel breve volgere di pochi millenni, avrebbe portato la civiltà dell’uomo sino ai nostri tempi.
Parallelamente allo sviluppo dell’uomo, avveniva lo sviluppo degli animali; sino a quando questi abitavano le foreste, il loro numero era modesto e di piccola taglia. Quando anche loro invasero le praterie, la enorme abbondanza di cibo dei ricchi pascoli li fece aumentare di numero e di dimensione; ne é un esempio il cavallo il quale, in origine, non era più grande di un coniglio, pur essendo già formato nella morfologia attuale. Alcuni animali erbivori crebbero a dismisura, come i dinosauri, i brontosauri, e di conseguenza crebbero le dimensioni dei carnivori, come i tirannosauri. Ma tutto ciò rientra nella storia della evoluzione della specie.
Improvvisamente, per fattori che non sono stati ancora pienamente chiariti, i grandissimi animali sono spariti, quasi contemporaneamente, dalla faccia della terra. Una delle più accreditate e moderne teorie, fa risalire questo accadimento nel terziario, circa 65 milioni di anni fa, alla esplosione di una supernova nelle vicinanze del nostro sistema solare, ad appena 880 anni luce dalla Terra; una bazzecola! Le radiazioni avrebbero interferito sulla capacità riproduttiva di tutta le specie viventi di grande, media e piccola taglia, portandoli alla estinzione nel breve volgere di una generazione. Ne fu influenzato anche il plancton che modificò in parte la sua struttura. Sopravvissero solo alcune classi di piccoli animali e da questi ripartì l’evoluzione della specie, ricominciando tutto da capo, o quasi.
Ma torniamo all’uomo. Gli abitanti dei boschi, per rispondere agli innumerevoli misteriosi interrogativi della natura, come la nascita, la morte, le piogge, i lampi, i tuoni, il sole, le stelle notturne, la luna con le sue fasi, la crescita dei frutti, il fuoco, il gelo dell’inverno, e così via, avevano individuato forze misteriose alle quali attribuire la causa di quei fatti, per la loro mente, così strabilianti e non diversamente spiegabili: stiamo assistendo alla nascita della religiosità, con tutte le collaterali animistiche, le credenze, i cerimoniali, i tabù, i totem, le divinità che tanto più importanti erano quanto più era inspiegabile e misterioso l’evento che rappresentavano.
Uscendo quindi nella prateria, l’uomo si portò appresso tutto il bagaglio religioso, e trasferì sui prodotti del suolo, così come aveva fatto con gli animali dei boschi, la sua cultura animistica.
Nacquero allora le divinità agricole: la dea Nidaba dei Sumeri, la vacca solare Hanub degli egiziani e Cerere, la dea romana del raccolto.
La popolazione delle divinità crebbe così a dismisura: una per ogni evento, spesso doppioni importati dalle tribù o popolazioni limitrofe. Gli dei erano tanti, potenti e spesso pericolosi. Occorreva ammansirli, ingraziarseli. Nacquero così i riti propiziatori, i sacrifici che volevano essere di buon auspicio e di espiazione nello stesso tempo.
Nei boschi l’uomo offriva alle divinità le bacche, le radici raccolte, i piccoli animali; quindi animali più grandi ed in maggior numero in rapporto alla ricchezza alimentare raggiunta. Nella evoluzione del sistema si spiegano così i sacrifici umani, estrema espiazione delle colpe, estrema volontà di accattivarsi le terribili divinità negative. L’uomo giunge sino al sacrificio di se stesso, o dei propri figli, per arrivare al sacrificio di altri uomini che immola in vece sua, dopo essersi identificato nella vittima. Da ciò le guerre tribali, non solo tese alla conquista di territori, ma anche per rifornirsi di prigionieri da utilizzare quali schiavi e quale materia prima per i riti espiatori.
L’esempio più significativo, sopravvissuto dalla notte dei tempi sino al medio evo, ci viene dal popolo Atzeco. Quando Cortes conquistò il Messico nel 1519, scoprì con raccapriccio gli orrendi sacrifici umani che questo popolo compiva in onore delle proprie divinità, raggiungendo la non indifferente cifra di 20.000 vittime all’anno, vittime che si procurava con interminabili guerre combattute contro le più deboli popolazioni limitrofe. La storia racconta che quando Cortes, animato da buoni propositi – dopo però aver sistematicamente spogliato quel popolo di tutti i suoi tesori e di tutte le sue ricchezze – volle iniziare Montezuma, l’ultimo Imperatore Atzeco, ai misteri della religione Cristiana, fu l’Imperatore a provare a sua volta orrore e raccapriccio: “E’ vero – si narra abbia risposto a Cortes – noi per onorare le nostre divinità uccidiamo uomini e ne divoriamo il cuore, ma sono pur sempre uomini, infinitamente piccoli e poco importanti rispetto alla grandezza dei nostri dei. Ma voi per onorare il vostro dio ne divorate le sue carni e ne bevete il suo sangue!” e con questo si riferiva al Sacramento della Comunione.
Era lo scontro fra due civiltà, scontro che, come spesso é avvenuto nella storia dell’umanità, é finito con la soppressione di quella più debole.
Questa lunga premessa, per arrivare a soffermarci con più attenzione su un particolare aspetto della lunga catena dei riti propiziatori e sacrificali: quello dei cereali.
Occorre sottolineare che le cerimonie sacrificali avevano due principali aspetti simbolici. Il primo, probabilmente il più significativo, attraverso la totale combustione del cibo, sia vegetale che animale, quale rinuncia al cibo stesso, per far giungere, attraverso la fiamma ed il fumo, l’intima essenza del sacrificio sino alla divinità. Nel secondo aspetto il sacrificio si compiva divorando il cibo sacrificale, in onore della divinità; in questo atto, il sangue della vittima, liquido misterioso che fuoriuscendo dal corpo ne spegne la vita, ha un significato di estrema importanza. Bevendo la coppa di sangue se ne ingerisce l’essenza sacrale, l’essenza vitale con la quale si onora dio. Con altrettanta sacralità si spreme il succo dei frutti per estrarre la parte più intimamente essenziale; questo forse il motivo per il quale il primo uomo ha spremuto l’uva, con quel che ne consegue.
Questo stesso principio ha indotto probabilmente l’uomo a far macerare la farina di frumento nell’acqua, per estrarne la vitalità, birra primordiale passata, nell’uso, da bevanda sacrificale a bevanda abituale. Non sembra quindi ardua la tesi che le origini della birra risalgano sino dai tempi della scoperta dell’agricoltura. La sacralità della birra, impiegata nelle cerimonie religiose, si ritrova in tutta la letteratura storica, dalla sumerica alla egiziana, come vedremo più avanti.
Se ci addentriamo profondamente nella storia, scopriamo, forse con sorpresa, che, ancor prima delle popolazioni germaniche, grandi bevitori di birra furono i Sumeri e gli Egiziani. La “culla della civiltà” é stata la prima patria di preparatori e bevitori di questa nobile bevanda. Fiumi di birra hanno attraversato per millenni l’Asia e l’Egitto, principale bevanda del tempo, a rinfrescare gole assetate, quale preziosa merce di scambio e di commercio, sacrale lavacro e offerta votiva nelle cerimonie religiose. Se ne conosce perfettamente le tecniche di produzione, ampiamente codificate nei testi sacerdotali che la definiscono di origine divina, a riprova del carattere nutrizionale, oltre che inebriante, che la fanno assurgere a fasti di bevanda nazionale.
Se é vero che si beve vino sino dai tempi di Noé, si beve birra almeno sino dai tempi dei nipoti di Noé. Racconta la Bibbia che Noé fu il primo uomo a piantare la vite e ad estrarre dall’uva un succo che trovò talmente gustoso da berne al punto da cadere in terra completamente ubriaco, facendogli perdere ogni dignità umana, tanto da suscitare le ire delle sue nuore, scandalizzate dalle oscene nudità che nei fumi dell’alcol metteva in mostra. Il resto della storia é nota: dalla costruzione dell’Arca al diluvio universale, evento che ha certamente una sua validità storica dal momento che si ritrova nelle leggende di moltissime religioni, fra queste nella epopea Assiro-Babilonese di Gilgamesch, che si perde nella notte dei tempi.
Narra una antica leggenda Irlandese che Cassair (o Cesara), nipote appunto di Noé, probabilmente stanco di quel nonno barboso e dalla lunga permanenza nell’Arca, in mezzo a tutti quegli animali, che fra l’altro non dovevano proprio olezzare di rose, decise di abbandonare la navicella allontanandosi su una barchetta, portando con se le sue poche cose, e fra queste, un pentolone di coccio con il quale era solito prepararsi dell’ottima birra. Navigando per il vasto mare, approdò, dopo un periglioso viaggio, sulle spiagge dell’Irlanda dove scoprì che già da oltre mille anni gli abitanti di quell’isola preparavano birra, secondo una ricetta misteriosa e segreta di cui erano gelosi custodi i Fomoriani, antichi e tenebrosi abitatori delle foreste, metà uomini e metà uccelli.
Facciamo adesso un pò di conti.
Noé visse sino a 950 anni; quando aveva 600 anni avvenne il diluvio dal quale scampò anche Cassair. Presumiamo che piantò la vite all’età di 300 anni. Quando Cassair sbarcò in Irlanda i Fomoriani già producevano birra da oltre 1.000 anni.
Dunque la birra é più vecchia del vino di almeno 700 anni!
Scherzi a parte, ed a parte ogni leggenda, la birra fu certamente la prima bevanda mai consumata dall’uomo. Molto tempo prima della vite, già si coltivava nel mondo l’orzo che, spontaneo o coltivato, fu ed é presente in tutte le latitudini della terra, mentre é noto che la vite cresce solo nella fascia temperata.
Quando gli assiro-babilonesi e gli egiziani, oltre tremila anni prima di Cristo, avevano avviato la loro splendida civiltà che li vedeva grandi costruttori di città, dense di operosa popolazione, abilissimi vasai, forgiatori e cesellatori di metalli, ottimo tessitori ed abili tintori, capaci allevatori ed agricoltori, conoscevano la scrittura, cuneiforme e geroglifica, sapevano tener di conto, ed infine conoscevano le tecniche di preparazione delle loro birre, la civiltà mediterranea era ancora nel paleolitico.
La penisola italica, terra a particolare vocazione vitivinicola, era ancora nell’età della civiltà villanoviana. Gli abitanti quando non vivevano nelle caverne, abitavano capanne di paglia e fango costruite su palafitte nelle aree perilacustri. Si dedicavano ancora alla raccolta delle bacche alternando una forma primitiva di semi agricoltura. Praticavano la pesca e la caccia, ed erano appena agli albori di una forma arcaica di allevamento. I suoi strumenti erano asce di pietra levigata; falcetti, raschiatoi, coltelli, punte di lance e di frecce ricavate dalla selce.
L’era del bronzo antico inizia fra il XIX° ed il XVIII° secolo avanti Cristo, e il settentrione della nostra penisola era ancora avvolta nelle nebbie della Cultura Polade e il vino era ancora nella notte dei tempi.

I SUMERI

La civiltà sumera fu certamente la più grande ed antica civiltà mai comparsa sulla faccia della Terra. Nasce, poco prima della civiltà Egiziana, nella fertile terra d’Asia in una fascia compresa fra il fiume Tigri e l’Eufrate. Nel periodo sumerico ed akkadico, per tutti i secoli di supremazia della città di Ur, per intenderci oltre 5.000 anni fa, si ricavava dall’orzo, prodotto principale dell’agricoltura di allora, una bevanda nazionale, molto simile alla nostra birra, che veniva chiamata “se-bar-bi-sag”, letteralmente “bevanda che fa veder chiaro”. In effetti, visto il suo contenuto alcolico, più che schiarire, appannava la vista di chi sprovvedutamente ne avesse bevuta troppa, ma il folcloristico nome deriva da una antica leggenda di cui parleremo più avanti.
Babilonia fu per 1.500 anni il centro della civiltà mesopotamica. Sorprendente la sua rete di fognature, autentico miracolo di ingegneria; straordinari i suoi giardini pensili per i quali era famosa ed erano annoverati fra le sette meraviglie del mondo. Famosa la sua torre, tipica costruzione ricorrente in molte città del tempo, ma che a Babilonia raggiungeva la non indifferente altezza di 90 metri, identificata in tempi moderni nella biblica “torre di Babele”.
Famosissimi erano i suoi tessuti che sapeva produrre di ottima qualità e con colorazioni raffinate. Famosa la “moda Babilonese”, esportata con successo ovunque, indumenti che lasciavano scoperto il seno – antesignano “topless” – ad esaltare la bellezza delle loro donne, pienamente integrate nel tessuto sociale, considerate fra le più belle del mondo conosciuto.
Ma ancora più famosa era la se-bar-bi-sag che preparavano di svariata ed ottima qualità, oggetto di commercio e intenso scambio in tutta la Mesopotamia ed oltre.
Descrizioni molto precise sui procedimenti di lavorazione, oltre alle immancabili minuziose contabilità di produzione, scorte e commercio, si trovano nei “Codici hammurabici”.
Hammurabi fu un grande Re babilonese che regnò dal 1728 al 1686 a.C. Durante il suo lungo regno – 42 anni per quei tempi era un autentico record – costruì templi, fortificazioni, canali di irrigazione, compì possenti imprese di guerra per le quali fu chiamato “Re delle quattro parti della Terra”, con ciò intendendosi tutto il mondo allora conosciuto. Più famosa ancora fu la sua capacità di legislatore, tanto da essere dai posteri ricordato come il Mosé babilonese. Nei codici, opera di grandissima mole, composti da 282 articoli, oltre un prologo ed un epilogo, raccoglie leggi e regole di vita per il suo popolo. Fra queste tavolette di argilla redatte nei caratteri cuneiformi in lingua accadica, ve ne sono appunto alcune che illustrano puntigliosamente come deve essere preparato il “vino di datteri” e la se-bar-bi-sag. E’ sorprendente notare come tale procedimento, siano ancora oggi valido nella sua essenzialità: maltizzazione, macinatura, lievitazione, cottura, filtraggio, aromatizzazione.
La fabbricazione era estremamente semplice ed efficace. Selezionavano dal raccolto annuale il migliore orzo, che veniva posto ad inumidire sino a quando principiava la germinazione, quindi veniva messo ad asciugare al sole e quando era ben secco, si macinava e si impastava con acqua formando dei pani. Quando questi erano spontaneamente lievitati, si ponevano a cuocere a forno molto caldo, in modo che si formasse rapidamente la crosta, mentre all’interno la pasta doveva rimanere molliccia. Per ottenere la birra, questi pani venivano frantumati e posti a cuocere con abbondante acqua in grandi recipienti di terracotta, quindi, al liquido filtrato, si aggiungevano erbe aromatiche, come la salvia ed il rosmarino. Tutto ciò avveniva sotto lo stretto controllo dello Stato, l’unico e solo ad avere diritto a tali produzioni, e la lavorazione ufficiale veniva fatta nei locali delle cantine reali, dai prestigiosi “gal-bi-sag”, i Mastribirrai dell’epoca, utilizzando apposite giare e vasi sui quali spiccavano, oltre ai simboli dell’orzo e della birra, i sigilli reali.
Largamente diffuse erano le produzioni contadine e familiari, anche queste sotto l’attento controllo dello Stato che imponeva tasse e balzelli con specifiche concessioni di produzione.
Nulla di nuovo sotto il sole!
Ingegnosa, e, a dir poco, curiosa, la conservazione del frumento nelle anfore granarie. Prima di sigillarle ermeticamente con cera d’ape, ponevano all’interno alcune piccole tartarughe le quali, respirando, consumavano tutto l’ossigeno, assicurando così la migliore conservazione. Insomma, primordiale ma efficace sottovuoto! In tempi recenti, sono state ritrovate alcune di questi recipienti sottovuoto alla tartaruga e le granaglie si presentavano ancora in un accettabile stato di conservazione.
Il più noto ed autorevole bevitore di birra del mondo antico, fu il mitico eroe babilonese Enkidu, così come viene narrato nella epopea di Gilgamesch. Nella biblioteca del Re Assurbanipal a Ninive, furono ritrovate, nel 1850, una notevole quantità di tavolette di argilla incise con caratteri cuneiformi. Trasferite nel museo di Londra, rimasero a dormire sino a quando George Smith ne scoprì, nel 1872 la chiave di lettura, riportando alla luce, fra l’altro, la più antica e suggestiva epopea dell’umanità, più antica di millenni della stessa Babilonia.
In dodici libri si racconta di Gilgamesch, re di Uruk, vissuto in Mesopotamia circa 2.500 anni prima, e che si diceva essere figlio di una dea e di un demone. Egli governava con estrema durezza, tiranneggiando il popolo ed abusando delle donne a suo piacere, compiendo le peggiori efferatezze con brutale perfidia. Gli dei decisero allora che era tempo di por freno alla scelleratezza di quel re e crearono dall’argilla un essere umano che sarebbe dovuto diventare il complemento positivo di Gilgamesch, contrastando e correggendo il tiranno. Lo inviarono sulla Terra ove crebbe in libertà nella foresta, al solo contatto della natura. Uomo primitivo e selvaggio, era ancora incapace di parlare e di ragionare; doveva quindi acquisire coscienza, sapere e saggezza, ed allora……
Egli bevve della se-bar-bi-sag
ne bevve sette volte
il suo spirito si sciolse
egli parlò ad alta voce
il suo corpo si riempì di benessere
il suo volto si illuminò……
Formidabile questa birra babilonese!
Continuano le tavole narrando l’incontro dei due eroi, come questi si affrontarono in una titanica lotta nella città di Uruk, e che viene così descritta:
Enkidu ostruì la porta con un piede
non lasciò entrare Gilgamesch.
Si affrontarono come tori
frantumarono lo stipite della porta
il muro tremò……
Dalla lotta escono entrambi vincitori; il tiranno fisicamente, Enkidu moralmente poiché, diventando suo intimo amico, ne corregge i difetti conferendogli generosità, saggezza e misericordia, così come avevano voluto gli dei.
Insieme compirono mirabolanti e cruente imprese, in quell’antico mondo popolato da mostri. Affrontarono ed uccisero il gigante Khumbaba, custode della foresta dei cedri, rendendola finalmente accessibile all’umanità. Per festeggiare si abbandonarono ad una formidabile bevuta di birra che li tenne fuori coscienza per giorni e giorni. In preda ai fumi dell’alcol, contravvenendo alle leggi divine, nell’esaltazione della loro lotta, uccisero quindi il Toro Celeste. Per punizione gli dei fecero morire Enkidu di malattia. Pazzo di dolore ed in preda alla paura della morte, Gilgamesch vagò per il mondo sino a quando scoprì le porte degli Inferi, che attraversò alla ricerca dell’immortalità. Nel suo viaggio ultraterreno incontrò Uta-Napisthim, suo antichissimo antenato, l’eroe babilonese del diluvio universale.
E’ questo l’undicesimo libro, il passo più bello di tutta l’epopea. Si racconta che gli dei, per punire gli abitanti di Suruppak delle loro malefatte, decisero di scatenare il diluvio universale. Ne informarono Uta-Napisthim al quale ingiunsero di costruire una imbarcazione sufficiente a contenere tutti i suoi familiari ed un esemplare maschio ed uno femmina di tutti gli animali conosciuti. Ovviamente il nostro eroe non dimenticò una abbondante razione di orzo nonché i capaci recipienti di terracotta con i quali preparare la sua se-bar-bi-sag personale.
Il diluvio si scatenò, durò sette giorni e seppellì tutta la terra. Quando la pioggia cessò, Uta-Napisthim cercò di individuare dove le acque, ritirandosi, lasciavano scoprire la terra; fece uscire prima una colomba, poi una rondine ma entrambe tornarono. Quando fece uscire il corvo e questo non fece ritorno, capì che aveva trovato terra e cibo e comprese che il diluvio era finito.
Gilgamesch non trovò l’immortalità, ma trovò la saggezza dell’uomo maturo che gli permise di regnare indisturbato per lunghi anni, finalmente amato dal suo popolo.
Ma andiamo ancora più in dietro nel tempo, sino alla nascita degli dei ed alla nascita del mondo stesso.
Marduck, il dio solare babilonese, prima di ingaggiare la sua tremenda lotta contro il drago Tiamet, signore e padrone del caos, convoca tutti gli dei e brinda con loro con abbondanti libagioni di se-bar-bi-sag quale auspicio di vittoria. Sarà stato per la ben nota potenza della straordinaria birra babilonese, sarà perché così era scritto nell’ordine delle cose, il dio solare sconfigge il dio delle tenebre dopo una titanica lotta che lo vede morire e rinascere un numero infinito di volte e, con la sua vittoria, crea dal nulla la luce del sole.
Marduck é legato al concetto della fertilità e del succedersi delle stagioni; é una divinità potentissima che muore e risorge a simboleggiare il letargo invernale ed il risveglio della primavera. Veniva festeggiato tutti gli anni ed i Misteri di Marduck si celebreranno ancora nell’età classica, all’inizio dell’anno babilonese che coincideva con l’inizio della primavera.
La processione partiva dal tempio del dio, preceduta da una sua gigantesca statua e seguita da una lunga teoria di otri di birra e di animali sacrificali. Convergevano a Babilonia una immensa folla di popolo, proveniente da tutte le regioni della Mesopotamia, e, per tutto il tempo dei festeggiamenti, bevevano ininterrottamente birra in onore del dio, a ricordo della sua lotta contro Tiamet, e per allontanare lo spirito delle tenebre. Dopo quattro giorni, diciamo così, di sacrificio, venivano immolati nel santuario del dio un agnello ed un montone i quali, gettati nel fiume, portavano via con loro tutti i peccati del popolo, assolvendolo in toto.
Assurbanipal é il porta bandiera di titanici banchetti ed orgiastiche libagioni.
Ultimo di trenta re dell’Assiria, passato alla storia con il più noto nome latino di Sardanapalus, viene descritto da Erodoto come il re potentissimo della città di Sard, un re che amava vestirsi e truccarsi come una donna. Era dedito al bere – naturalmente birra – ed al sesso con particolare tendenza verso i maschietti, pur non disdegnando le numerose ancelle del suo harem. Nelle solite tavolette cuneiformi, si legge testualmente che “alla sua mensa la birra scorreva a fiumi” ed il cibo si consumava a montagne in giorni ininterrotti di lussuriosi festeggiamenti. La sua filosofia di vita era, come egli stesso ha fatto incidere sul suo monumento funebre, “nulla al mondo conta, tranne mangiare, bere e far l’amore. Tutto il resto vale solo quanto uno schioccar di dita” Per questo la sua statua funeraria lo effigia nell’atto di schioccare le dita.
Se tanto frivolamente visse, virilmente seppe morire. Quando il ribelle Arbace, alla testa di Persiani, Medi e Babilonesi, dopo tre anni di assedio riuscì a conquistare la città di Sard, trovò che Sardanapalus aveva fatto costruire una immensa pira sulla quale si era assiso, con tutti i suoi averi ed i suoi familiari, ed imperterrito si era dato fuoco.
Scavando ancora indietro nella storia, non possiamo trascurare Sargan il Grande, fondatore della prima dinastia semitica, nel 2.528 prima di Cristo.
Sentiamo come il re stesso racconta le sue origini:
“Io sono Sargan, Re forte, Re di Akkad. Mia madre era una sacerdotessa, mio padre un semidio. Mia madre mi concepì di nascosto, mi pose in una cesta di giunchi e sigillò il coperchio. Mi pose nel fiume -l’Eufrate- che non mi inghiottì. Il fiume mi sostenne e mi portò da Akki l’agricoltore. Questo mi lavò nella se-bar-bi-sag, mi allevò come un figlio e fece di me un giardiniere.” – il lavacro nella birra rivestiva carattere di sacralità, come una sorta di battesimo, trasmettendo il vigore della bevanda e la fertilità delle messi.
Ancora una volta abbiamo la prova che la Mesopotamia fu la grande culla della nostra civiltà; da questa provengono gran parte delle nostre leggende, da quella del Diluvio Universale, a quella di Romolo e Remo, a quella di Enea con la sua discesa negli Inferi, a quella di Mosé.
Alla maggiore età, ovvero al compimento del quattordicesimo anno, Sargan viene presentato alla corte del re Ur-Zababa dove in breve giunge l’altissimo grado di Coppiere, con il compito di custode delle sacre coppe reali nelle quali era tenuto personalmente a versare le bevande al re, vino di datteri e birra. Con una congiura di palazzo, evento consueto all’epoca, uccide il re, conquista il potere e fonda la città di Akkad, dove trasferisce la capitale con la sua corte. Grande conquistatore, estende il suo regno dal Golfo Persico alla Siria alla Anatolia, tutto il mondo conosciuto, meritando giustamente il titolo di Re dei quattro angoli della Terra, raggiungendo in 56 anni di regno un immenso potere e prestigio.
Ogni anno ricordava le sue origini sacre, proclamando grandiosi festeggiamenti ad Akkad ai quali partecipava una strabocchevole folla proveniente appunto dai quattro angoli della terra. Impalmava una vergine sacerdotessa dalla cui gestazione si traevano auspici di fertilità e quindi compiva pubbliche abluzioni di birra in ricordo del suo salvataggio dalle acque dell’Eufrate.
Seguivano ovviamente le immancabili processioni ed i festeggiamenti si protraevano per giorni e giorni ed al popolo osannante venivano distribuiti migliaia di otri di se-bar-bi-sag e montoni e buoi arrostiti in un’orgia di birra cibo e sesso da far impallidire i più impenitenti gaudenti.
Una specie di Oktoberfest ante litteram!
Nei secoli successivi, molto tempo dopo che fu estinta la dinastia dei sarganidi, durata un millennio, nella tradizione sacra popolare si continuavano a tramandare i riti sarganidi, legati al mito della fertilità e della procreazione, e la birra rivestiva il doppio carattere di bevanda sacra, per la sua origine divina, e di festosa bevanda di uso comune.
Meno edificante era l’uso che faceva della birra Nabucodonosor (604-562 a.C.), in certe particolari quanto frequenti occasioni della sua vita. Fu un grandissimo e prestigioso Re che seppe portare il suo regno al massimo sviluppo attraverso grandi campagne belliche dalle quali riportava immancabili vittorie. Ma non fu solo un grande re guerriero, fu anche un raffinato architetto o comunque uomo capace di servirsi dei migliori artigiani che offriva la piazza. Di grandiosa imponenza il suo esagil – il palazzo reale – ricco di affreschi e di statue di squisita fattura. Mirabolanti le mura che cingevano Babilonia, rendendo la città imprendibile da qualsiasi nemico. Di strabiliante bellezza la Porta di Istar, porta principale e strada di accesso alla città, interamente ricoperte di bassorilievi in ceramica che raffiguravano la dea ed una processione di tori alati, la cui vista, presso il Museo Archeologico di Berlino, suscita ancora oggi profonde emozioni.
Ma Nabucodonosor era anche tristemente famoso per la tecnica con la quale era solito liberarsi delle sue innumerevoli amanti, quando ne era stanco. Con la scusa di farle partecipi di sacri lavaggi in onore della dea Nidaba, le faceva immergere in una grande piscina colma di se-bar-bi-sag avendo cura di far loro indossare tutti i gioielli della corona. E’ facile intuire che le poverette, per il gran peso dei preziosi monili, annegavano miseramente – nulla poteva o bere o affogare viste le dimensioni della piscina – mentre il buon Nabucodonosor assisteva all’evento commemorando e tessendo le lodi e le capacità amatorie delle sue amate con canti e libagioni.
Anche questo Re deve essere stato un formidabile bevitore di birra, almeno stando al folto numero di amanti che si dice abbia avuto!
Nel vasto olimpo delle divinità sumere spiccava, per importanza specifica, Nidaba, dea del frumento, protettrice dei gal-bi-sag – gli abili preparatori reali – e quindi patrona della birra. Questa divinità veniva onorata, in occasione delle innumerevoli feste ricorrenti annualmente, con collettive bevute di birra che, nei santuari, veniva distribuita gratuitamente e in grandi quantità alla popolazione.
Ci è stata tramandata una vastissima documentazione, frutto di ricerche e scoperte archeologiche, circa l’uso ed il costume birrario delle antiche popolazioni sumeriche. Un gran numero di tavolette cuneiformi ci narrano di contabilità, di commercio, di donazioni nei santuari per onorare le diverse divinità, di sistemi di produzione e di usanze sacre. I musei di tutto il mondo sono pieni di anfore da birra e da orzo, con impressi i rispettivi simboli, e di vasi istoriati con scene di raccolto del frumento, scene di fabbricazioni della bionda bevanda e scene di processioni nelle quali spiccano fra tutte le anfore birrarie.

GLI EGIZIANI

Importantissima era la produzione di birra anche nell’antico Egitto che, nei consumi popolari, veniva subito dopo l’acqua del Nilo. Scarsa la presenza del vino d’uva, più diffuso invece il vino di datteri.
Le prime notizie certe risalgono al 3100 avanti Cristo e narrano della ostessa Azag-Bau la quale preparava e vendeva nella sua cantina una birra di cereali, che nella lingua egiziana più arcaica veniva chiamata “henqet”. Nasce probabilmente parallelamente alla se-bar-bi-sag sumera, e non si hanno documentazioni sufficientemente comprovanti la priorità dell’una sull’altra.
Gli egiziani facevano risalire l’invenzione della birra al dio Rie, il quale ne aveva fatto splendido dono agli uomini. Dai testi sacri del tempio di Uruk si deduce che dovevano essere almeno quattro i tipi di birra prodotti, birra che veniva offerta annualmente in diciotto vasi d’oro al dio Anu.
Se ne ha però notizia certa di solo tre tipi: la “zythum”, birra chiara, la “curmy” che doveva essere di colorazione più scura, e la “sà”, birra ad alta concentrazione, riservata all’esclusivo consumo del Faraone e per le cerimonie religiose.
La lavorazione era molto simile a quella sumerica, a parte la maltizzazione che venne scoperta ed impiegata solo in epoche successive, probabilmente quando si volle imitare la più raffinata lavorazione della prestigiosa birra Babilonese. Per l’aromatizzazione si ricorreva con maggiore frequenza al miele di datteri ed alla cannella, non disdegnando però salvia e rosmarino.
La birra é presente lungo tutto l’arco della vita degli antichi egiziani: dalla nascita alla morte. Lattanti, venivano svezzati con una miscela a base di zythum, acqua, miele e farina di orzo; più grandicelli, venivano iniziati ad un moderato consumo della bionda bevanda regalando loro, con una apposita cerimonia di iniziazione, una piccola anfora che doveva costituire la dose massima quotidiana di birra permessa, anfora che li seguiva fin dopo morti e che veniva posta nel sarcofago – ovviamente quei defunti che avevano diritto di aspirare all’immortalità.
Il processo di mummificazione, che durava mesi, veniva preceduto da un lavacro a base di birra, evidente simbolo di purificazione per il carattere sacrale e per l’origine divina della bevanda. Occorre dire che nel Libro dei Morti nel capitolo che tratta della imbalsamazione nella Casa dei Morti, solo i Faraoni, i dignitari, i sacerdoti e le personalità più importanti del regno avevano diritto a questo trattamento che, conservando il corpo, assicurava l’immortalità dell’anima. Soltanto questi personaggi erano depositari, per volere divino, di un’anima che entrava a far parte dell’aldilà, in amena compagnia delle altre numerose divinità. Solo i Faraoni, dopo morti, divenivano essi stessi divinità, andando ad occupare un preciso posto nel complicato ordinamento divino. Il popolo, purtroppo per loro, non disponeva di nessun tipo di anima, nonostante le abluzioni interne ed esterne di birra, in vita e da morti.
Nel testo del Regno Antico, conservato nelle piramidi di Sakkara, alla descrizione di quanto era necessario al defunto per il lungo viaggio dell’oltre tomba, figura sempre il geroglifico di zythum e curmy. Durante le interminabili estenuanti cerimonie funebri, tutti i presenti per onorare il defunto facevano abbondanti libagioni di birra, così come si legge sul papiro di Prisse trovato nella necropoli di Abido e che consigliava: “….non ti lascerai prendere dal dolore sino a stordirti, ma troverai conforto bevendo zythum e curmy….” (da papiri conservati nel museo egiziano di Torino)
I Sacerdoti completavano la funzione funebre bevendo sà mentre intonavano il lamento funebre che all’incirca recitava: “….é triste salire sulla barca di Rie senza speranza di trovare zythum e curmy in abbondanza come vorrebbe l’anima tua….” (ibidem)
Ramsete III° (1300 a.C.) si vantava di aver donato durante tutta la sua vita ben 463.000 vasi di birra alla potentissima divinità Isthar, la dea della fertilità, dell’amore, ma anche protettrice dei naviganti e degli eserciti, come recita la sua litania:
….astro del mattino
stella del mare
regina della terra
patrona dei naviganti
guida degli eserciti…..
Isthar veniva identificata nel pianeta Venere, il primo e più luminoso astro a comparire nel cielo notturno. In suo onore era stato eretto il tempio di Medinet-Habu dove, con puntigliosa pignoleria, nelle tavolette contabili si annotavano i generi alimentari introitati, ed il consumo giornaliero di bevande: ben 144 otri di birra, ed alcuni di vino e vino di datteri. Ciò comprova, se ancora ve ne sia bisogno, oltre la sacralità di questa bevanda, anche le sue proporzioni di consumo rispetto le altre.
Certamente la birra era anche di uso popolare, ma il popolo non ne poteva disporre a volontà secondo i propri desideri, come traspare da un canto contadino che recitava con una vena di rimpianto: “….trebbia la paglia dall’orzo, per i signori che vogliono zythum…” (ibidem), mentre una dolcissima canzone d’amore inneggia all’amato bene: “….quando ti bacio sulle lebbra dischiuse, sono felice anche senza zythum…” (ibidem)
Nelle tavole raccolte nella biblioteca di Tutmosi III° (1480 a.C.) é scritto come il dio Osiride, divinità notturna patrono del regno dei morti, ricevesse due volte l’anno dal faraone Sotis I° ben 1200 otri di birra che veniva impiegata per le libagioni sacre e per essere distribuita al popolo in occasione delle festività religiose. Narrano inoltre di Zhutu, generale di Tutmosi III°, il quale non riuscendo a conquistare dopo un estenuante assedio la fortezza di Yoppo, pensò bene di far ubriacare la guarnigione fenicia abbandonando fuori dalle mure un abbondante quantitativo di otri di birra, riuscendo così nell’intento.
Amenophis IV, figlio di Amenophis III°, sale al trono alla morte naturale – evento raro – del padre nel 1362 a.C. Uomo di grande apertura mentale, si rende subito conto che l’effettivo potere é da tempo radicalmente in mano alla potente classe sacerdotale. Non sarà dunque lui a regnare sull’Egitto, ma il Grande Sacerdote, così come era sempre stato sin dai tempi dei suoi avi.
Uomo intelligente, ma anche ambizioso, decide che d’ora in poi il governo dello Stato dovrà passare nelle sue mani. Per far ciò ha un solo mezzo: destituire la divinità imperante, il dio Ammone, ottenendo così il declassamento di tutta la casta sacerdotale. Crea quindi una nuova divinità capostipite, unica e sola abitatrice dell’olimpo celeste: il dio Athon, rappresentato nel disco solare, dispensatore di luce in terra, origine di ogni specie vivente e, come tale, padre celeste dello stesso Faraone. Cambia quindi il suo nome in Ekenathon, letteralmente figlio di Athon, ed inizia il processo di restaurazione facendo distruggere tutte le statue del regno del vecchio dio Ammone, a partire dalla capitale, la città di Tebe.
In un eccesso di moralismo ed ascetismo, ordina che sia proibita ogni produzione di birra, che siano chiusi tutti gli spacci e fa distruggere tutte le riserve di questo prodotto, sia nelle cantine reali che in quelle di tutti i dignitari, sino ai più umili osti. Siamo propensi a credere che più da un eccesso morale, fu spinto dalla necessità di precludere ogni passata formalità religiosa che vedeva quale principale attore la birra. Dunque il dio Athon non beve birra, e nemmeno Ekenathon!
Ma i sacerdoti sono in grande numero, troppo forti, ed il loro potere sul popolo ancora intatto. Ekenathon non si attenta a scatenare una guerra civile di religione, dalla quale avrebbe ben poche prospettive di uscirne vincitore – aveva certamente tutto il popolo contro, se non altro per aver proibito la birra (terribile errore politico!) – decide allora di abbandonare Tebe al suo apostata destino e di costruire una nuova città: Amarna. In tre anni di ininterrotto lavoro di schiavi pagati a suon di frusta, costruisce in pieno deserto la nuova capitale del regno, ricca di nuove costruzioni, cinta da imprendibili mura e con una sola porta di accesso. In questa fa costruire il suo nuovo palazzo ed uno splendido santuario dedicato al suo padre spirituale, il dio Athon.
Nella città fortezza, a Tell-el-Amarna, vivrà monasticamente con la sua bellissima moglie Nefertiti, sicuramente la più bella donna mai esistita nell’antico Egitto, come si può ancora vedere dagli splendidi busti in calcare, di cui uno, scoperto nel 1912, perfettamente conservato ed ancora fresco di vividi colori, esposto nel museo del Cairo. Lo segue la sua numerosa corte, i dignitari della nuova classe sacerdotale di cui egli é il capo incontrastato, ed una vasta schiera di artigiani, servitori e schiavi.
E’ una città assolutamente autonoma, provvista di tutto ma, hai loro! non si produce una sola goccia di birra, bevanda che il Faraone aborrisce. Pullulano però, fuori dalle mura, i venditori di zythum e curmy che fanno affari d’oro con tutti i cittadini meno asceti di Ekenathon.
Modesto comunque fu il governo di questo Faraone che, governando sulla sua città, si illuse di governare l’Egitto, saldamente in mano alla vecchia classe sacerdotale.
Alla sua morte naturale – ma ci sia concesso più di qualche dubbio – avvenuta nel 1345 a.C., sale al trono, ancora bambino, il nipote Tutankathon al quale aveva destinato in moglie la propria figlia, da lui stesso sposata alla morte di Nefertiti, per farla assurgere al rango di Regina ed assicurare così al prediletto nipote il legittimo titolo di Faraone.
Dopo soli tre anni Tutankathon abbandonava la città fortezza, che nel breve volgere di pochi anni si riduceva in polvere insieme ai sogni di gloria e di un dio unico di Ekenathon. Tornava a Tebe ed abiurando il dio solare Athon, riabbracciava la vecchia fede del dio Ammone e, con sommo gaudio dei sacerdoti i quali in tutto ciò dovevano avare messo più di uno zampino, cambiava il suo nome in Tutankamon. Chi non conosce oggi questo nome di Faraone, illustre sconosciuto per il suo brevissimo regno, ma tramandato in eterno ai posteri per la ricchezza del ritrovamento della sua tomba.
Quando nel 1922 Lord Carnarvon e l’archeologo inglese Howard Carter stavano compiendo scavi nella Valle dei Re, in Egitto, si imbatterono casualmente in un sigillo che riportava il cartiglio di un fantomatico faraone, Tutankamon, del quale nessuna traccia figurava nella sia pur lunga e minuziosa genealogia delle stirpi faraoniche. Con la pazienza del certosino ed animati dalla speranza di trovare una nuova tomba, cominciarono gli scavi. La loro costanza fu premiata quando, dopo un considerevole numero di insuccessi, poiché la vera tomba era protetta da una sequela di finte porte, finti corridoi e finte camere mortuarie, si imbatterono nell’anticamera della vera camera mortuaria. Il sogno segreto di tutti gli archeologi si era avverato! la più grande scoperta archeologica del mondo! la prima ed unica tomba di faraone assolutamente intatta ed inviolata. Nell’anticamera giacevano alla rinfusa centinaia di oggetti – ciascuno dei quali avrebbe fatto la fortuna di un archeologo – dal più semplice utensile di uso comune, al più raffinato oggetto regale: il carro da battaglia, sedili e divani di fattezza squisita intarsiati d’avorio ed oro, animali fantastici scolpiti in legni pregiati ed il pezzo più importante della collezione: il trono del re con effigiato sulla spalliera il ritratto del re e della sua consorte.
Carnarvon e Carter pensavano di aver trovato tutto il trovabile, ma erano appena all’inizio. Scavando ancora per scoprire la cella mortuaria, si imbatterono in una seconda stanza ancora più ricca di reperti, molti dei quali erano oggetti preziosi di raffinata fattura. Un tesoro di immenso valore! Ma le sorprese non erano ancora finite. Ancora una porta sigillata ed una terza stanza, aperta la quale si trovarono di fronte ad un muro d’oro, ma che si rivelò essere la parete di una enorme cassa dorata, all’interno della quale vi era una seconda cassa anche questa dorata, quindi una terza ed ancora una quarta, come in un gioco di matrioske russe. All’interno di questa ultima cassa si trovava un sarcofago di quarzite gialla, lungo circa tre metri ed alto uno e mezzo, sul quale spiccava il ritratto in legno di Tutankamon. Convinti di essere finalmente arrivati alla mummia del faraone, sollevarono la pesante lastra di marmo che ricopriva la cassa e trovarono una prima bara avvolta in bende di lino che sostenevano la prima delle maschere d’oro tempestata di gemme che rappresentava il volto del Faraone. All’interno di questa ancora un’altra cassa con ancora una maschera funeraria d’oro massiccio, coloratissimi smalti e pietre preziose. E per finire, ancora un’altra cassa, la terza ed ultima, tutta in oro massiccio, dal peso di svariati quintali, nella quale finalmente fu raggiunta la mummia del Faraone sulla quale troneggiava la terza ed ultima maschera funeraria, la più bella, la più nota al grande pubblico.
A conti fatti, il corpo del faraone riposava in una sequela di otto casse, e tornava alla luce dopo 3270 anni! Come ebbe a dire Carter, l’unico merito ed aspetto importante della vita di Tutankamon fu “perché morì e fu sepolto” con fasti e ricchezze di tesori d’arte e di preziosi mai eguagliati da nessun altro faraone nella storia d’Egitto.
Ma torniamo alla nostra più semplice e genuina birra.
Memorabili devono essere stati i banchetti in tutte le dinastie dei Faraoni; fiumi di birra, non metaforici ma autentici fiumi di birra, attraversavano le mense regali riccamente imbandite, lungo le quali scorrevano rivoli di birra continuamente alimentati da capaci otri di zythum. I commensali non dovevano fare altro che immergere le coppe e brindare, brindare, trascorrendo le lunghe giornate delle innumerevoli festività religiose fra montagne di cibo e torrenti di birra, fra canti sacri e danze un pò meno sacre, sino a quando tutti cadevano esausti dalle pantagrueliche mangiate e bevute. Non per nulla si sta parlando di banchetti faraonici!
Quando nel 1934 un gruppo di archeologi francesi cominciò a scavare nella zona di Tell-Hariri, erano ben lungi dall’idea di scoprire l’antichissima, famosissima ma altrettanto fantomatica città di Mari, città che, sorta nel III° millennio avanti Cristo, assurse al massimo fasto sotto il regno del suo ultimo re Zimrilim e fu distrutta, rasa al suolo e bruciata dagli eserciti di Hammurabi di Babilonia nel 1739 a.C. Da allora era rimasta sepolta per quattromila anni, sino a quando, appunto nel 1934 se ne intraprese lo scavo.
Il palazzo reale, che ricopriva l’astronomica superficie di 30.000 mq., era dotato di ben trecento stanze di cui due, evidentemente quelle dell’appartamento personale del re, corredate di tutti i servizi igienici e da due vasche da bagno collegate a grandi caldaie di terracotta per scaldare l’acqua. E ancora stanze destinate ad aule scolastiche, con file di panche e scrittoi e con stili e le tavolette di terracotta come se fossero appena state usate dagli scrivani. Ma la grande sorpresa fu la biblioteca, una immensa stanza rettangolare letteralmente piena di tavolette che il fuoco anziché distruggere, aveva consolidato rendendole leggibili. Parte erano ancora ordinatamente alloggiate sugli scaffali, altre erano cadute e ricoprivano il pavimento sino a due metri e mezzo di altezza.
Lettere, rendiconti, atti di governo, intrighi politici, resoconti di viaggi, di battaglie, storie di uomini e di divinità; scorci di vita quotidiana che doveva essere scorsa intensa e ricca di eventi scrupolosamente annotati e codificati. Più di ventimila tavolette, solo in minima parte tradotte, fra queste, la contabilità della produzione, della vendita e delle donazioni di birra, di orzo per birra e per la panificazione.
Ma il ritrovamento, per noi birrofili, più interessante fu quello della Dea zampillante, una statua di donna, di normale altezza, con in mano un vaso recanti i sigilli dell’orzo e della birra. Attraverso una canalizzazione interna alla statua, collegata con una grande anfora esterna, scorreva la zythum che fuoriusciva dal vaso. Ingegnoso sistema per alimentare i già noti fiumi di birra che attraversavano le mense dei Faraoni.
Non possiamo certo chiudere questo capitolo sull’Egitto senza accennare all’ultima regina della sua storia, la più nota la più chiacchierata: Cleopatra.
Tutti ne conoscono la storia, più o meno veritiera, narrata, romanzata, cinematografata, ed é a tutti noto come, sentendosi vecchia, non più desiderata, sentendo di aver perso il suo ben noto fascino femminile, e timorosa di essere trascinata a Roma quale trofeo di guerra, decise di por fine ai suoi giorni facendosi mordere il seno da un aspide.
Ebbene, prima di compiere questo ultimo definitivo gesto, si fece mescere dalle ancelle due coppe di sà, la forte birra degli dei, che offrì una a se stessa, prossima dea sorgente dall’imminente morte, ed una alla dea Anubi che l’avrebbe accompagnata nel lungo viaggio d’oltretomba.
L’olimpo egiziano è costellato da numerose divinità, in un complicato gioco di personificazioni e metamorfosi. Fra queste la potentissima Hothor, figlia di Rie, una delle maggiori dee del pantheon egiziano, divinità solare femminile impersonata nel sicomoro.
Nella rappresentazione del sole era impersonata dalla vacca Hanub, con l’emblema del disco solare fra le corna e con le mammelle che spargevano latte e birra. Il popolo egiziano usava portare al collo una sua effigie sia come talismano contro le malattie, sia come portafortuna per assicurarsi, siamo convinti, ampia disponibilità di birra per tutto l’anno.
Anche in medicina e nelle formule magiche la birra rivestiva carattere di grande importanza; come balsamo contro le malattie con particolare riferimento a quelle di origine intestinale, per curare le ferite, come antidoto al velenoso morso degli scorpioni. Si racconta che il mago Dodi, con ripetuti impacchi di birra, riuscì addirittura a resuscitare un toro ed un’oca riattaccandone la testa mozzata.
La birra era inoltre comunemente impiegata quale complemento agli emolumenti degli operai. Infatti, durante i lavori della grandi costruzioni, nelle miniere o nei semplici lavori dei campi, oltre al salario, agli uomini liberi veniva distribuita una misura di birra ogni tre ore, agli schiavi due misure al giorno mentre ai prigionieri di guerra – meschini! – quando andava bene, una misura al dì.
Vastissima la raccolta di reperti archeologici che ci raccontano di birra e dei costumi birrari egiziani. In centinaia di rotoli di papiro viene menzionata la birra nei suoi momenti di consumo abituale e quotidiano; vasi e vassoi istoriati con scene di raccolta dell’orzo, della sua produzione, di cerimonie religiose; bassorilievi con spighe di orzo, vasi da birra, geni seduti sotto l’albero della birra, rappresentazione figurata dell’albero della vita. Famosa la statuetta conservata nel museo di Firenze e che rappresenta una donna inginocchiata, intenta ad impastare pani per birra. Formidabile lo stendardo murale dipinto all’interno della tomba di Ti, dignitario di corte preposto alla fabbricazione della birra riservata alla corte del Faraone, nel quale, in una lunga sequela di scenette, vengono istoriate le varie fasi della lavorazione della bevanda.
Al Louvre, un plastico a tutto rilievo, ritrovato nella tomba del cancelliere Nakhti-Assiout, mostra, a cielo aperto, l’interno di una fabbrica di birra, con personaggi intenti alle varie fasi della lavorazione.
Bellissima la tomba di Ounson e di sua moglie Imenhetep, contabile dei sacri granai di Ammone nella città di Tebe nella XVIII dinastia, interamente trasferita e ricostruita in una sala del Louvre. Gli stendardi dipinti lungo le pareti rappresentano tutte le fasi inerenti la semina ed il raccolto dell’orzo. Nella parte riguardante la mietitura, fra le alte spighe, frammiste alle figure degli schiavi intenti al lavoro, circolano portatrici di anfore da birra intente ad offrire la ristoratrice bevanda.
Sempre al Louvre, scolpita su di una lastra di marmo, la Tavola dei conti, il menu dei morti, con il lungo e dettagliato elenco di tutte le cibarie e le bevande da porre nella tomba a ristoro del defunto, e fra queste: “due misure di birra – una misura di birra al miele di datteri – una misura di vino di datteri – ….”

ROMANI

Partiamo da una considerazione: se Cleopatra seppe conquistare prima Cesare e poi Antonio avvalendosi delle sue raffinate seduzioni di amante – che dovevano essere varie e spettacolari – e della sua ben nota arte culinaria, non può non aver iniziato questi illustri personaggi alle delizie della birra. Sembra quindi probabile e credibile che al loro rientro in patria abbiano conservato questa abitudine, se non altro in ricordo dei trascorsi amorosi.
Non sembra inoltre azzardata l’ipotesi che anche Trimalcione, il ricchissimo quanto buzzurro anfitrione descritto da Petronio nel suo Satiricon, bevesse birra egiziana, per sfoggiare un prodotto esotico con i suoi commensali.

Al termine del pranzo, raccontato con arguta dovizia da Petronio, sorprese i suoi ospiti facendo girare fra i triclini un sarcofago con dentro uno scheletro, tipica usanza di ogni fine pranzo dei Faraoni i quali volevano così ricordare ai commensali la caducità della vita, richiamandoli verso pensieri meno prosaici del mangiare e bere. Se Trimalcione conosceva così bene questa usanza, doveva conoscere altrettanto bene la birra egiziana, e non è improbabile che in qualche pranzo successivo abbia offerto zythum e curmy, anche per risparmiare una volta tanto il suo preziosissimo Falernum Optimianum annorum centum !
Si sa di certo come Nerone facesse largo uso di birra. Ne riceveva spesso in dono da Silvio Ottone, l’infelice marito di Poppea che aveva opportunamente spedito in Portogallo per potersi incontrare liberamente con la di lui moglie. Era ovviamente birra della penisola iberica, la cerevisia, e l’Imperatore la gradì tanto che volle presso di se uno schiavo lusitano, abile mastro birraio, addetto alla quotidiana preparazione della bionda bevanda.
Tacito ci da una vivace testimonianza della birra nel mondo germanico, descrivendola però in termini tutt’altro che lusinghieri, come un vino d’orzo, grossolano, dal sapore sgradevole. Probabilmente non era lontano dal vero, poiché in quei tempi quel popolo doveva essere ancora ben lontano dalle raffinatezze di una zythum o di una se-bar-bi-sag. Ma Tacito era anche un grande estimatore di vino, che consumava in ragguardevoli proporzioni, dal ché il suo giudizio sulla birra ci lascia alquanto perplessi.
Più scientifico invece il commento di C.Plinio Secondo, autore di quella formidabile enciclopedia che é la “Naturalis Historia”. Nel suo XXXVII libro ci fa sapere che la birra a Roma era conosciuta ma poco consumata, per lo più impiegata nella cosmesi femminile per la pulizia del viso e quale nutrimento per la pelle. Nelle Province invece era molto apprezzata e largamente diffusa, dalla penisola iberica alla Francia all’Egitto, e nella sua Historia ce ne descrive minuziosamente due tipi: la zythum egiziana e la cerevisia della Gallia.
Il mondo romano conosce bene la birra anche se ne fa un uso sporadico e limitato, e non poteva essere diversamente visto che in tutte le terre conquistate, divenute poi Province romane, questa bevanda aveva larghissima diffusione e godeva di grande prestigio. Probabilmente i conquistatori la consumavano abitualmente quando si trovavano nelle Province, ob torto collo, non trovando nulla di meglio in loco, per il loro gusto. Non la apprezzavano particolarmente, ma nemmeno la disprezzavano, usando nei confronti di questa bevanda la classica tolleranza romanica.
Contrariamente i Greci, o meglio, alcuni Greci, avevano una decisa antipatia nei confronti della birra che chiamavano anche loro con il termine spregiativo di vino d’orzo. Eschilo nelle “Supplici” formalizza il pensiero dei suoi concittadini poiché, parlando con tono di scherno degli Egiziani, dice: “….gli abitanti non sono uomini veri, ma uomini che bevono vino d’orzo…”. Che tipo di vino bevessero poi i “veri uomini” ce lo racconta Omero. Una coppa di vino schietto allungato con due coppe di acqua di fonte, aromatizzato con miele e resine varie. Così mesce il vino Patroclo ad Achille sotto le mura di Troia; una bevanda – o un intruglio? – che almeno per il grado alcolico doveva essere, se non inferiore, pari alla birra; in quanto al sapore, sfidiamo il lettore a farne la prova! Comunque abitualmente in Grecia il vino si beveva schietto solo in alcune occasioni, mentre nell’uso comune veniva preparato come ce lo descrive Omero.
Ben presente invece era la birra nei rituali sacri nel culto della dea Demetra, divinità femminile dei campi, delle messi, Gran Madre della Terra alla quale aveva fatto il dono della fertilità. Ogni anno, in primavera, le donne greche si riunivano per compiere una cerimonia tanto mistica quanto misteriosa, legata al culto della fertilità femminile ed alla iniziazione delle vergini, cerimonia dalla quale era tassativamente esclusa ogni presenza maschile. Offrivano a Demetra “succo d’orzo e di grano” ed in suo onore si abbandonavano a sostanziose libagioni di “birra di cereali” lasciandosi andare a riti che avevano più del profano che del sacro. Meglio non indagare oltre!
Probabilmente questo é il vero motivo che fa dire a Plinio che la birra é bevanda da donne.
I Cretesi erano invece ottimi preparatori di birra, che chiamavano “bruton” e che consumavano in proporzioni pari se non maggiori del vino che sapevano produrre, anche questo, di ottima qualità. La birra veniva preparata artigianalmente in proprio, sia nelle case dei contadini che in quelle patrizie – in queste ultime veniva lasciata alle solerti cure delle gentili matrone – a testimonianza della larga diffusione in tutti gli strati sociali.
Sugli stupendi vasi ritrovati a Cnosso, frequenti sono le decorazioni con spighe di orzo e sovente appare il simbolo della bruton sulle altrettanto stupende coppe d’argento finemente cesellate, adibite allo specifico consumo di questa bevanda.
Nella reggia di Minosse si mesceva bruton in eguale misura del vino; bruton si offriva al Sacro Toro e bruton bevevano in abbondanza le danzatrici sacre prima di compiere le loro spettacolari acrobazie, nelle arene, sulla groppa di scalpitanti tori selvaggi, spericolato e quasi sempre cruento esercizio di alta tauromachia.
Duemila anni di civiltà raffinata, elegante, colta e progredita che si esprime in diversificate attività creative, fanno di Creta la perla del mar Egeo. Grandioso il palazzo reale di Cnosso, ricchissimo di affreschi che ci fanno rivivere momenti di vita dell’epoca, e fra questi il “Corridoio delle Processioni” ove figurano, fra l’altro, coppieri recanti anfore di diverse forme che dovevano contenere vino e bruton. L’immancabile vastissimo magazzino reale traboccante di “pithoi”, giare gigantesche, ciascuna con il suo bravo simbolo per distinguerne il contenuto: vino, olio, grano, orzo da birra e bruton. In una di queste, narra la leggenda, annegò Glauco, figlio di Minosse, forse nel tentativo di bere fino a scoppiare di quella bionda deliziosa bevanda.
Più piccolo, ma estremamente più raffinato, il palazzo reale di Festo, dotato di una fornitissima biblioteca, di un teatro, di sala da scrittura e di una stupenda sala da bagno corredata da un efficace sistema di condutture per l’acqua calda e l’acqua fredda, interamente rivestita di alabastro, da far invidia ai moderni sceicchi.
Elegantissima la sala del trono e gli appartamenti reali, tutti finemente decorati con affreschi raffinati di squisita fattura di sapore moderno: non dimentichiamo che siamo nel 1700 avanti Cristo, quando, ripetiamo, in Italia settentrionale era appena iniziata l’era del Bronzo Antico!
Anche qui i ben forniti magazzini con le loro brave giare per la bruton, ed una ricca collezione di vasi decorati con i motivi che ne richiamavano il contenuto: la palma per il vino di datteri, l’orzo per la bruton, la foglia di vite per il vino di uva.
Dai magazzini di questo palazzo, in ancora oggi efficienti condotte di ceramica, scorreva vino e bruton sino alle mense reali, offerte ai commensali da nobili coppieri che versano il vino in larghe coppe d’oro e di argento e la birra in lunghi calici affusolati per meglio far risaltare la spuma, come si può vedere da una delicata statuetta di maiolica, raffigurante una non identificata dea, elegantemente vestita ed adora di ricchi gioielli, con in mano l’affusolata coppa con il simbolo della bruton.

MEDIOEVO

“Gambrinus fue chiamato finché visse,
regnò in quel di Fiandre e di Bramante.
Dall’orzo il malto pria di tutto estrasse,
poscia di birra fé l’arte brillante
tal che li posteri vantasse
d’aver avuto un Re, Mastro insegnante.”
Ci sia concesso tradurre così una antica ballata popolare tedesca che narra di Gambrinus, mitico re germanico, al quale la leggenda fa risalire l’invenzione della birra.
Grato per il dono della bevanda nazionale tanto amata, il buon popolo germanico pensò bene di immortalare il personaggio, addirittura santificandolo e trasmettendolo ai posteri con il nome di Sanktus Gambrinus. Molti dubbi vi sono comunque circa la reale esistenza di questo re e controversa la sua presunta data di nascita. Secondo la leggenda, si dice contemporaneo di Carlomagno, quindi intorno all’anno 750, e sarebbe stato famoso sia come inventore della birra che come fondatore della città di Cambrais; ma questa città era già nota e florida sino dall’epoca Gallo-romanica, quindi precedente alla nascita di Cristo.
Ad ogni buon conto la birra era nota e consumata in quella regione già da quell’epoca, e non é ne giusto ne storicamente esatto farne risalire la nascita in Germania solo dai tempi di Carlomagno.
Infatti, già Tacito dalle sponde del Reno contemplava con disgusto i truculenti e rissosi guerrieri Galli ingurgitare enormi quantità di quella bevanda, che definisce “barbaro vino di orzo”, sdraiati su pelli d’orso, fino ad ubriacarsi indecentemente. Quattro secoli prima dell’era volgare, Pitia narra ai suoi contemporanei greci di un certo mosto d’orzo che veniva allegramente bevuto dai Galli, mentre Catone e Plinio il Vecchio dichiaravano la birra essere bevanda nazionale germanica.
Contentiamoci quindi di confinare Gambrinus in una area puramente leggendaria e ricordiamolo così come viene descritto: un grassissimo rubizzo personaggio, con una fluente barba, vestito con abiti regali di foggia vagamente romanica, assiso su un sontuoso trono, il capo cinto da una corona di spighe d’orzo ed in mano uno spumeggiante boccale di birra. Di lui non si narrano epiche gesta di battaglie e di conquiste, ma solo di battaglie compiute su tavole imbandite, coronate da colossali bevute di bionda birra.
Solamente a partire dal medioevo germanico si affina e si perfeziona l’arte di preparare la birra; da lavorazione puramente casalinga, diventa progressivamente di preparazione semi industriale. Si abbandona l’uso del tino di coccio e si principia ad usare il più consono recipiente di rame che conferisce alla birra più raffinate caratteristiche.
E’ un continuo proliferare di fabbriche e fabbricanti, ed i villaggi fanno a gara a chi la produce meglio, mentre i villici gareggiano a chi ne beve di più, ed i consumi crescono con il migliorarsi della qualità.
La birra viene variamente aromatizzata con rosmarino, ginepro, resine, eccetera, e soltanto dal 1270 in poi si inizia ad utilizzare il luppolo di cui se ne scopre il felice connubio con il malto d’orzo. Ogni produttore comunque si regola in materia come meglio preferisce, secondo il gusto personale o la convenienza economica – il luppolo era troppo costoso.
Dobbiamo arrivare al 1516, al famoso editto di Guglielmo IV di Bavaria, per avere una precisa regolamentazione circa la corretta preparazione della birra, come prescritto nel “Das Reinhetsgebot”, letteralmente “legge della purezza” In questa, oltre stabilire precise quotazioni di mercato, secondo qualità e misure, stabiliva: “….in particolare vogliamo che d’ora in avanti nelle nostre città, mercati e paesi, non sia usata o venduta alcuna birra con altri ingredienti che non siano solo luppolo, malto d’orzo e acqua…..” stabilendo pesanti sanzioni per i contravventori.
Oltre alle sanzioni pecuniarie, ben più pesanti pene venivano inflitte ai recidivi. Per verificare la genuinità della birra, i controllori di quel tempo versavano una pinta di birra su una panca di legno e vi facevano sedere il mastro birraio che l’aveva prodotta. Se, asciugandosi, i calzoni di cuoio non rimanevano attaccati, voleva dire che la birra era genuina e non succedeva nulla. Se invece le brache rimanevano attaccati alla panca, voleva dire che era stata aromatizzata con la meno costosa resina, ed allora cominciavano i guai! In inverno immergevano il malcapitato in un pentolone della sua stessa birra, con grossi pezzi di ghiaccio, e l’imbroglione se la cavava al massimo con una polmonite. Ma in estate il pentolone era pieno di birra bollente, con il rischio di finire lessati.
L’industria della birra continua fiorente ad espandere i consumi sino al XVI° secolo, poi, con le rivoluzioni, le guerre religiose che sconvolsero il nord Europa nella guerra dei trent’anni, giunsero fortissime tassazioni e balzelli, ed i consumi degradarono paurosamente – una volta di più a riprova che certi governo non sanno trovare nulla di meglio delle facili tassazioni sui consumi popolari per risolvere, o credere di risolvere, i loro problemi economici.
Dal XVII secolo in Bavaria e dal XVIII secolo in Germania, avviene la ripresa dei consumi, favorita da tassazioni meno pesanti oltre che dalle più perfezionate tecniche di lavorazione che ne abbassano i costi migliorando la qualità.
Anche in Inghilterra, sino dai tempi della romana Britannia, era in uso la preparazione della birra di orzo, preparata artigianalmente per l’uso familiare e aromatizzata con rosmarino e verbena. I conquistatori Romani erano soliti gustarla a piena gola, con maggiore soddisfazione di quel loro intruglio di acqua e vino divenuto nel frattempo aceto.
Così come ancora oggi a Trieste, i contadini che intendono vendere vino direttamente al pubblico sono soliti esporre davanti alle loro case un ramo d’albero che da ciò sono dette “frasche”; così gli antichi britanni ponevano davanti alle loro case un palo con avvinta un’edera, per segnalare che erano disponibili a vendere la birra che producevano.
La birra era consumata in Inghilterra in grandissime quantità, ma il popolo beveva birra schietta solo nelle grandi occasioni; per il resto dell’anno doveva accontentarsi di una birra leggera, ricavata dalle trebbie, ciò a causa dei pesanti balzelli che anche in quei tempi affliggeva l’Inghilterra. In ogni contea si produceva un tipo di birra diverso, della cui formula erano gelosi custodi, e si dice che la migliore provenisse dalla zona del Wessex.
Anche la Scozia aveva la sua brava birra, e celeberrima era quella che producevano certi monaci di un convento nelle vicinanze di Glasgow e della quale, si dice, fosse un assiduo estimatore anche San Kentigern, fondatore appunto di quella città.
I re anglosassoni commemoravano i loro morti in battaglia durante interminabili banchetti, nel corso dei quali facevano l’appello dei caduti e ad ogni nome seguiva un abbondante brindisi. Terminato il primo elenco, ne seguiva un secondo, nel quale si onoravano i combattenti che meglio si erano distinti sul campo; a questo punto ci sorge il sospetto che dovesse seguire un terzo elenco, di quelli dei defunti nel corso del banchetto, per eccessivo….amor di patria!
Un popolare poema medievale anglosassone, narra le eroiche imprese di Beowulf il quale affronta, nemmeno a dirlo, il mostro Grendel che aveva il brutto vizio di divorare i commensali dei banchetti reali che si attardavano troppo alle mense del re. Il nostro eroe, prima di cominciare la titanica lotta, si rifocilla con colossali bevute di birra, insieme ad i suoi accoliti, e poiché egli é un eroe, ha il dono di non cadere mai ubriaco, mentre gli uomini della sua squadra, che eroi non sono, cadono uno dopo l’altro a terra ubriachi. Ovviamente Grendel senza por tempo in mezzo, se li mangia uno alla volta, talché il povero Beowulf é costretto a combattere da solo una battaglia interrotta da frequenti formidabili libagioni. Ma poiché, ripetiamo, il nostro eroe é un eroe, non può far altro che vincere, uccidendo infine l’odiato mostro. E giù nuova bevuta di birra. Così via per tutto l’interminabile poema, tanto che ad un certo punto ci sorge il sospetto che sia stato scritto non tanto per commemorare le gesta epiche dell’eroe, quanto le sue colossali bevute.
I Danesi durante le secolari guerre combattute contro gli Inglesi, erano soliti portarsi dietro la loro birra, per rifocillare il proprio esercito, ritenendo la birra inglese orrendamente disgustosa. Per contro gli Inglesi nutrivano analogo sentimento nei confronti della birra danese. In materia di odio sociale erano entrambi ben forniti!
Il bellissimo Re Alfredo d’Inghilterra, vissuto nel VIII° secolo, fu un famoso collezionista e cultore di birra, che sapeva produrre, si dice, buonissima, secondo una sua personale formula. E’ passato alla storia poiché, fra una battaglia persa ed una vinta, riuscì finalmente a sconfiggere gli odiati danesi nell’anno 814, stipulando la Pace di Wemor. Non potevano mancare gli immancabili brindisi a base di birra danese ed inglese, scambiandosi fra vinti e vincitori le rispettive botti, superando finalmente anche il rispettivo atavico disgusto birrario.
Ovunque in Inghilterra si produceva birra, con i più svariati sistemi ed aromatizzazoni. Occorreva una regolamentazione, così, nel 1200, si giunge al codice di Hywel Dda, molto simile al successivo di Guglielmo IV, con il quale si dettavano regole di produzione e di mercato, stabilendo pesanti sanzioni per i contravventori.
Soltanto dopo il 1400 comincia in concreto lo sviluppo industriale con il conseguente maggiore incremento dei consumi e nel 1454 Enrico IV concede la prima patente di fabbricazione della storia inglese, alla Brewers’ Company (Corporazione birraria).
L’Italia é, come noto, un paese a forte vocazione vitivinicola. Ciò non toglie che le popolazioni italiche abbiano, più o meno saltuariamente, gustato quella bevanda che i barbari invasori si portavano dietro nelle loro scorribande sul nostro suolo. Quando poi gli invasori restavano a secco del loro prodotto originale, razziavano l’orzo dei campi per prepararsi in loco quella birra della quale non potevano proprio fare a meno.
Le prime popolazioni italiche a bere birra furono certamente quelle della fascia sub alpina, ed in particolare il triveneto, zone, per la loro facilità di accesso, più bersagliate dai barbari che calavano dal nord. Il primo centro italiano del quale si ha notizia certa di produzioni di birra locale fu Pavia, quando fu eletta capitale longobarda nel V° secolo, e furono gli stessi conquistatori longobardi ad insegnare le fasi della lavorazione alle genti del posto, dopo che ebbero esaurite le scorte che si erano portate al seguito. Ma quelle produzioni durano solo per il tempo dell’invasione longobarda.
Non diversamente fece Alboino il quale calava in Italia nel 568, facendosi subito nominare Re. Ben presto esaurì la sua birra, ed allora fece requisire tutto il vasellame di rame del posto, tutto l’orzo dei campi, per produrre nuova birra per il suo esercito assetato. E fu certamente birra che fece bere a Rosmunda nel cranio del di lei padre, Cunimondo, che lui stesso aveva personalmente ucciso. Ma, come sappiamo, Rosmunda non dimenticò l’affronto e, meditando vendetta, si fece intanto amante di Elmichi, lo scudiero del re. Alboino riprende le sue scorribande sul suolo italico e, dopo tre anni di assedio, riesce a conquistare Pavia e da li si spinge sino a Verona dove si insedia nel palazzo di Teodorico e chissà dove sarebbe arrivato questa tempera di conquistatore se, dopo soli tre giorni, il suo poco fidato scudiero non fosse riuscito finalmente a propinargli una tazza di birra avvelenata.
Il prezzo del regicidio é l’amore di Rosmunda e i due colombi convolano a Ravenna dove Rosmunda, fra l’alcova ed un banchetto, tenta a sua volta di avvelenare l’amante. Elmichi però mangia la foglia e, scambiando i calici di birra, rimanda la palla a Rosmunda la quale conclude così la sua sventurata e tragica esistenza terrena.
Ben altra birra, meno indigesta e più salutare, sapeva preparare Teodolinda, figlia di Gariboldo di Baviera, anch’egli grande intenditore e preparatore di birra, famosa in tutta la Germania dell’epoca. Per tutto il periodo della sua reggenza del Regno Longobardo, ceduto al figlio Adolardo che viene incoronato nel 625, era rinomata la sua corte di Monza dove teneva sontuosi banchetti a base di spumeggiante birra che gli ospiti facevano a gara a bere a più non posso.
Teodolinda, fervente cattolica, contribuì alla conversione delle sue genti e si dava da fare per raccogliere fondi destinati alla costruzione di chiese e basiliche. Due volte l’anno inviava a Papa Gregorio Magno grandi quantità di birra, che il Pontefice faceva magnanimamente distribuire al popolo romano che apprezzava il dono con canti, danze e festeggiamenti che duravano fin quanto duravano le scorte di birra.
Papa Gregorio Magno, per la sua casta santità, non era un grande estimatore della bionda bevanda, come d’altronde non lo era di tutte le bevande a base alcolica, preferendo la più semplice acqua. Meno casto e certamente meno in odore di santità Clemente V, assurto al papato nel 1300, il quale, per le sue origini tedesche, amava più del dovuto la buona birra che si faceva produrre in abbondanza ed in abbondanza tracannava. I cittadini romani vissero, sotto di lui, un periodo d’oro per i loro consumi di questa bevanda, pur rimanendo saldamente legati alla “fojetta” trasteverina.
Cala Barbarossa in Italia e con lui fiumi di birra, prodotta dai tedeschi, fiamminghi ed inglesi al soldo del condottiero. Le genti italiche imparano a produrla, più per farne oggetto di mercato con l’esercito occupante che per il proprio consumo, che stenta a crescere, poiché la bionda bevanda é strettamente collegata al nordico invasore, quindi guardata con sospetto e con rancore. Sono momenti episodici che non lasciano alcuna traccia.
Di ben altro avviso sono i frati dei conventi che attribuiscono alla birra poteri medicamentosi, primi fra tutti i frati dell’Abbazia di Montecassino. Nella quiete dei loro chiostri, solerti frati orano e lavorano pasticciando con erbe e radici, dando vita a quel fiorente commercio di liquori e medicinali artigianali di cui ogni Abbazia vanta primati e specialità, tramandate nei secoli sino ai nostri giorni. I contadini portano nei conventi l’orzo che i monaci trasformano in birra, con variazioni sul tema, ed il commercio si allarga e l’uso si diffonde, anche se non esce ancora dai confini comunali.
Ma la birra non viene ancora vissuta come bevanda alimentare, bensì solo come bevanda medicamentosa; viene somministrata ai convalescenti come ricostituente, alle partorienti perché producano più latte, ai malati quale dieta alimentare, come purgante, come digestivo e per migliorare la circolazione del sangue. E’ una birra forte, densa, corposa, carica di potere nutrizionale. Le famose birre d’Abbazia belghe ne conservano tuttora la memoria storica.
Mentre il popolo ne fa un consumo saltuario e modestissimo, legato alle vicissitudine della salute, nelle corti reali il consumo é pressoché abituale, la birra é di casa insieme e più del vino. I monarchi di tutto il nord, quando non sono in lotta fra loro, si scambiano vincoli di sangue in un fitto scambio di parentele fra re e imperatori, e con le parentele si scambiano i tipi di birra.
Fa produrre birra a Milano l’imperatore tedesco Massimiliano, andando sposo nel 1500 con Maria Bianca Visconti, per distribuirla ai festanti milanesi, insieme a confetti e dolci.
Se ne beve abitualmente alla corte di Lorenzo il Magnifico, suggerita da Luigi Pulci, poeta, raffinato maestro culinario e grande estimatore di vini e di bevande, tanto da essere considerato il padre dei moderni Sommelier. Gran mangiatore, gaudente e gran burlone, oltre che rallegrare le mense di Lorenzo, sovrintendeva alla distribuzione delle bevande, soprattutto vino, con sapienti abbinamenti al cibo; consigliava invece di bere birra con crescioni – specie di pastella lievitata e fritta – fra in pasto e l’altro per non perdere l’abitudine di mangiare!
Passerà ai posteri per il suo poema in rime “Morgante Maggiore”; fa dire al gigante Margutta nell’VIII° canto:
….e credo alcune volte anco nel burro,
ne la cervogia e, quando io n’ho, nel mosto….
Cervogia é dunque il nome della birra nell’Italia medievale, con chiara derivazione fonetica da “cereale” che risale a sua volta da Cerere, la dea romana del raccolto, la dea delle messi, del grano e dell’orzo, la Grande Madre della Terra dalla quale scaturisce la vita materiale ed esoterica.
Finisce qui questo breve trattato sulla birra nel mondo antico e medievale, avendo voluto soffermare l’attenzione del lettore soprattutto su fatti, fatterelli e misfatti in qualche modo legati al meraviglioso mondo della birra, mondo che per descriverlo tutto occorrerebbe scrivere l’intera storia dell’umanità, poiché la storia della birra nasce con la storia dell’uomo.

MODERNO

Per tutto il medioevo e sino all’inizio dell’era moderna propriamente detta, in Italia si era prodotta birra esclusivamante con metodi artigianali, per il raro consumo dei pochi estimatori. Si trattava di produzioni discontinue, legate a fattori strettamente temporanei e locali. La birra veniva vissuta, dal grande pubblico, come una bevanda tipica delle genti del nord, da sempre invasori dell’italico suolo e, come tali, da sempre nemici. Quella loro strana bibita, che nulla aveva a che vedere con il più noto ed apprezzato vino, non poteva quindi non essere guardata come minimo con sospetto.
La birra si importava per lo più dall’Austria, retaggio della dominazione borbonica che influenza soprattutto il nord, ed era legata ad un uso elitario, mentre i consumi popolari confluivano essenzialmente sul vino, anche per ovvi motivi di minor costo e di più facile reperimento.
Dobbiamo arrivare alla metà del secolo scorso perché finalmente anche in Italia sorgano le prime vere e proprie fabbriche, organizzate con moderni criteri di produzione industriale. Sono ovviamente opera, per lo più, di intraprendenti industriali d’oltralpe, i quali vedono in Italia prospettive commerciali di sicuro interesse, (i vari Wuhrer, Dreher, Paskowski, Metzger, Caratch, Von Wunster, ecc.) ai quali presto fanno seguito anche commercianti italiani, soprattutto fabbricanti di ghiaccio che vedono nella birra il naturale complemento della loro attività, che si esplicava esclusivamente in estate.
In pochi lustri assistiamo ad un continuo frenetico fiorire di fabbriche di ogni tipo e dimensione, sino ad arrivare, nel 1890, a ben 140 unità produttive, per un totale di 161.000 hl, ai quali vanno sommate le importazioni che raggiungono, in quell’anno, 50.738 hl, pari a circa il 25% del consumo nazionale.
Nel breve volgere di un ventennio, diminuiscono di nove unità il numero delle fabbriche, ma molte di queste crescono di dimensione e capacità imprenditoriale, in rapporto alla sempre maggiore espansione dei consumi, grazie anche al più accessibile costo della bevanda che può così raggiungere le fasce popolari. La produzione quadruplica e, nel 1910, arriva alla considerevole cifra di ben 598.315 hl. Anche le importazioni salgono, seppure non nella stessa percentuale, toccando 85.934 hl, pari al 13% del consumo nazionale.
Giungiamo così alla Grande Guerra, e, per tutto il periodo bellico, cessa pressoché la produzione della bionda bevanda, essenzialmente per il fatto che la maggior parte del malto occorrente per la fabbricazione doveva essere reperito all’estero, essendo ancora insufficiente, oltre che di scarsa qualità, il malto di provenienza nazionale.
Non birra, ma vino bevevano i baldi fanti italiani quando si lanciavano all’assalto dell’austro-ungarico esercito, il quale, a sua volta, non vino, ma bionda birra beveva! e le rispettive bevande entravano a far parte delle rispettive invettive!
Con il finire della guerra ed il ritorno alla normalità, assistiamo ad una vera e propria esplosione di consumi, dovuta, chissà? anche alla maggior conoscenza e divulgazione della birra, apprezzata, fra tanta morte e distruzione, proprio sui campi di battaglia. Nel 1920 le fabbriche italiane sono soltanto 58, ma la produzione arriva alla ragguardevole cifra di 1.157.024 hl, ai quali si aggiungono soltanto alcune centinaia di ettolitri di birra importata. Crescono e si consolidano quelle aziende che, nel volgere di alcuni decenni, diventeranno le grandi realtà industriali del settore, come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Paskowski di Firenze e Roma, le Birrerie Meridionali di Napoli di proprietà dalla famiglia Peroni, la Pedavena di Feltre, la Poretti di Iduno Olona, la Moretti di Udine, la Wunster di Bergamo, alle quali fanno corollario una pletora di medio-piccole birrerie, come la Menabrea di Biella, la Icnusa di Cagliari, la Cagnacci di Ancona, la Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro, la Dell’Orso & Sanvico di Perugia, la S.Giusto di Macerata, la Ghione & Pogliani di Borgomanero, la Bosio & Caratsch di Torino, la F.lli Di Giacomo di Livorno, la Brennero di Milano, la Raffo di Taranto, la Forst di Merano, e poi ancora la Leone, la Sempione, la Cervisia, la Metzeger, ecc.
I consumi salgono ancora e, nel 1925, la produzione raggiunge 1.569.000 hl. Cresce anche l’importazione, fermandosi però a poco più di 30.000 hl. I consumi procapite toccano i tre litri e mezzo – molto distanti dai consumi del vino che superano invece i 150 litri – e fanno ben sperare per il futuro, vista la rapidità con la quale aumentano di anno in anno.
A questo punto si scatena la reazione dei vinai che, di quel passo, temono di dover affrontare a breve una crisi del loro settore. Riescono quindi a far approvare dal Governo leggi protezionistiche a tutela dei loro interessi. Così, nel 1927, viene varata la legge Marescalchi la quale, con l’apparente scopo di favorire l’agricoltura, ma con la recondita speranza di peggiorare la qualità della birra, impone ai birrai l’immissione di un 15% di riso. Le tecnologie dell’epoca non consentivano infatti di sfruttare appieno tutte le caratteristiche positive del riso, e la qualità, anche se in minima parte, ne risentiva. Contemporaneamente si inaspriscono le tasse con l’aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl. Ma non basta. La legge prevedeva inoltre una apposita licenza di vendita di “bassa gradazione” e ne limita lo smercio al dettaglio esclusivamente nei bar’s, trattorie e birrerie. I “vini e oli”, categoria di esercizi molto diffusa all’epoca, non possono vendere al minuto, ma solo all’ingrosso a casse intere. A rincarare la dose, in molti Comuni il “dazio” viene regolato con l’applicazione di fascette sul collo di ciascuna bottiglia, con immaginabili intralci e perdite di tempo che fanno cadere l’interesse dei commercianti verso il prodotto.
L’effetto è immediato, ed i consumi scendono vorticosamente, non tanto per il livello qualitativo, che rimane comunque accettabile, quanto per l’inevitabile levitazione dei prezzi che pongono il prodotto fuori della portata delle masse popolari.
Quindi nel 1930 la produzione crolla a 672.325 hl mentre l’importazione rimane ancora attestata sui 30.000. I consumi procapite scendono a 1,64 litri annui, con grande soddisfazione di chi aveva voluto quella miope legge. Molte fabbriche chiudono o falliscono e le restanti 45 soffrono grandi difficoltà e sono costrette a licenziare il personale per poter sopravvivere in qualche modo. Non resta loro altro da fare che concentrare le produzioni. Attraverso una azione concordata fra i più lungimiranti ed intraprendenti industriali, si procede alla ripartizione degli spazi di mercato, rilevando, nel contempo, le aziende in crisi e riducendo ulteriormente il numero dei centri di produzione che sono ora tutti in mano alle più grandi e più solide famiglie birrarie.
Inevitabilmente, dopo un breve periodo di tregua, si scatena una feroce concorrenza della quale approfittano i commercianti al dettaglio con richieste sempre più esose di sconti, omaggi e premi, tanto che le birrerie si vedono costrette a consorziarsi in un patto di rispetto – 1933 – che regola le comuni politiche di sconti e premi, e le cose migliorano, se non altro perché smettono di dissanguarsi.
La ripresa dei consumi è comunque lentissima e, nel 1940, la produzione arriva appena a 814.638 hl, mentre crolla l’importazione, tutelata da dazi protettivi imposti dal Governo per dare un contentino ai birrai. Il procapite, anche per effetto della crescita della popolazione, scende comunque a 1,60 litri annui.
Di nuovo la guerra, e la produzione rallenta progressivamente, fintanto che tutte le fabbriche, negli ultimi anni del conflitto, sono costrette a fermarsi per mancanza di materia prima. Cessate le ostilità, gli industriali del settore birrario si leccano le ferite delle loro aziende, uscite dal periodo bellico più o meno danneggiate, e riprendono faticosamente l’attività. Dobbiamo comunque arrivare al 1950 per risalire alle quote produttive del 1925, raggiungendo 1.548.800 hl ai quali si aggiungono circa 15.000 hl di birra importata, ed il procapite arriva a 3,28 litri annui.
Sino al 1959 i consumi oscillano con alterne vicende, dovute esclusivamente all’andamento climatico della stagione estiva, da 1.500.000 a 2.000.000 di hl, con l’importazione che non supera il 2% dei consumi totali ed il procapite rimane contenuto fra i 3 ed i 4 litri anno. Va detto comunque che sino a quegli anni la birra veniva bevuta in un arco di tempo che andava da marzo a settembre; rientrava, nella mentalità corrente, fra le comuni bevande dissetanti, come le bibite gassate, e come tale veniva consumata esclusivamente al banco. Era addirittura opinione popolare che la preparazione avvenisse con chissà quali misteriosi sciroppi, né più né meno come una aranciata od una gassosa. Nei mesi invernali quindi le fabbriche chiudevano, dedicandosi a lavori di manutenzione e riordino delle strutture.
Dal 1960 finalmente la birra accede nel canale alimentare, dal quale può raggiungere facilmente le famiglie, e così, nel volgere di un decennio, la produzione arriva a toccare i sei milioni di ettolitri, con un procapite che supera undici litri e mezzo. Sino al 1975 la birra continua la sua avanzata trionfante sino ad arrivare ad otto milioni di ettolitri di produzione, con oltre 570.000 hl di importazione, ed il procapite si attesta intorno ai sedici litri. Finalmente i consumatori hanno compreso lo spirito della bevanda, nobilitandola nella sua giusta dimensione, e tutti ormai sanno che si ricava dal malto e che non ha nulla a che vedere con le bibite gassate. Gli industriali tirano un sospiro di sollievo: euforicamente ottimisti, già fanno previsioni a lunga scadenza ritenendo che, di quel passo, negli anni novanta sarà possibile superare i 40 litri, posizionandosi su soddisfacenti medie europee, e c’è già chi pensa a potenziare le proprie strutture produttive.
Ma la congiuntura è alle porte, e quando scoppia virulenta nel 1975, colpisce inevitabilmente anche il settore birrario nazionale, che perde un drammatico 19,5%, scendendo a 6.465.000 hl, tornando alle stesse quote di cinque anni prima, mentre, stranamente, l’importazione cresce del 40%, arrivando a toccare i 652.000 hl.
Come se non bastasse, il Governo decide di aumentare del 50% l’imposta di fabbricazione, con un consistente balzo in avanti dei prezzi al pubblico, la qual cosa, in una economia di recessione, rallenta considerevolmente la ripresa, che sarà lenta e faticosa, ed occorreranno altri cinque anno per risalire ai sedici litri di consumo procapite.
Dagli anni ottanta in poi e sino ad oggi i consumi crescono costantemente di anno in anno; di poco per volta, ma crescono sino ad arrivare ai 27 litri del 1995. Cresce la produzione interna, ma cresce soprattutto l’importazione che passa dai 652.000 hl del 1975 ai 3.154.000 hl del 1994, mentre la produzione nazionale, nello stesso anno, arriva a poco più di dodici milioni.
Le unita produttive sul territorio italiano sono attualmente 18, con oltre 3.500 dipendenti, e fanno tutte parte, con esclusione della Forst ancora solidamente in mano alla stessa famiglia, di grossi raggruppamenti internazionali.
Siamo comunque ben lungi dai consumi di birra delle altre nazioni europee; con i nostri 27 litri siamo all’ultimo posto della scala, preceduti dalla Francia (altro paese a forte vocazione vitivinicola!) con 39.3 litri, dalla Grecia con 42 litri e dalla Spagna con 66.5 litri.
Ma il futuro fa ben sperare! Sempre nuovi consumatori si accostano ogni giorno a questa splendida antichissima bevanda, in virtù delle sue caratteristiche di freschezza, bevibilità e digeribilità, ma grazie soprattutto alla europeizzazione delle aziende di produzione che ha fatto fare un grosso balzo in avanti alla qualità, offrendo ai consumatori una straordinaria gamma di assortimento in grado di soddisfare i palati più esigenti.